Il mio ricordo del dottor Giancarlo Bertolotti

Conobbi il dr. Bertolotti ad inizio 1997, quando, giovane sposa, mi rivolsi a lui perché dopo più di un anno e mezzo dalle nozze, ancora non eravamo riusciti a concepire un figlio.

Mio marito ed io ci eravamo sposati nel maggio del 1995, a ventisette e trent’anni e, da subito, avevamo deciso di seguire i metodi naturali per regolare la nostra fertilità di coppia.  Dopo qualche mese di “rodaggio”, ci sentimmo pronti per accogliere l’arrivo di un figlio e, pieni di entusiasmo, decidemmo di cercare una gravidanza. L’entusiasmo iniziale via via si affievolì, di fronte al passare del tempo, senza che i nostri desideri si realizzassero.

Avevo già sentito parlare del dr. Bertolotti, per la sua disponibilità a fare conoscere i metodi naturali e per la sua “militanza” a favore della vita e, quando una cara amica infermiera che lo conosceva personalmente mi suggerì di rivolgermi a lui, non esitai.

Ci sentimmo telefonicamente e subito ci fissò un appuntamento preso l’ospedale San Matteo, in un orario che potesse essere per noi preferibile.

Il dottore prima ci ascoltò, in silenzio, con il garbo e la viva attenzione che sempre lo contraddistinsero. Poi procedette ad una visita ginecologica e mi diede le famose “tabelline” su cui annotare la temperatura basale. Per tutta la durata del colloquio mantenne sempre lo sguardo fisso negli occhi miei e di mio marito. Ricordo perfettamente il momento in cui ci disse che ci avrebbe indirizzati, per i primi accertamenti non invasivi, presso il centro sterilità del Policlinico. La sola parola “sterilità” provocò nel mio intimo una sensazione di profonda, terribile, tristezza e lacrime silenziose iniziarono a scorrere senza che potessi fermarle. Non dimenticherò mai il suo sguardo in quel momento: ebbi la netta sensazione che mi leggesse nell’anima. Mi sentii compresa, accolta e, nello stesso tempo, sostenuta. Sentii nel profondo di essere “a casa”, che, qualunque fosse il percorso che ci attendeva, c’era la persona giusta ad accompagnarci. Terminata la visita, mio marito ed io ci congedammo dal dottore con una calorosa stretta di mano e ci avviammo verso l’uscita, percorrendo un lungo corridoio. Arrivata in fondo, prima di svoltare, mi girai e lo vidi lì, ancora sulla porta dell’ambulatorio, immobile a guardarci. Ebbi la strana sensazione come se il suo sguardo mi attraversasse e mi pervadesse.

Nei mesi successivi si succedettero una serie di esami e di visite che misero in evidenza una serie di problemi che riguardavano sia me che mio marito. In modo particolare una ecografia interna, cui era seguita un’isterosalpingografia, aveva messo in evidenza una malformazione del mio utero, bicorne, con setto molto profondo, che, a detta dei medici che avevano proceduto all’esame, metteva a serio rischio il proseguimento delle eventuali gravidanze. Questa ipotesi, data come assolutamente probabile, ci aveva fortemente sconfortati. Solo il dottor Bertolotti, senza alimentare false speranze, manteneva tuttavia un atteggiamento positivo: raccontava di avere assistito al parto di pazienti con un utero come il mio e ci invitava a proseguire con fiducia nel nostro cammino di sposi.

Nel frattempo, Emanuele ed io demmo la disponibilità, tramite i servizi sociali, ad accogliere un bambino per un affido temporaneo, aderimmo al progetto Chernobil, ospitando per circa un mese una bambina bielorussa e raccogliemmo tutta la documentazione da presentare al Tribunale dei Minori per avviare le procedure per l’adozione. Prima di presentare la pratica, però, rimasi incinta. La gioia della gravidanza fu da subito turbata da minacce d’aborto. Immediatamente avvertii il dr. Bertolotti, che si premurò di farmi una ecografia e mi prescrisse riposo assoluto. Trascorsi a letto sette mesi di gravidanza. Il primo trimestre fu davvero turbolento: le minacce di aborto si ripeterono, ma il dr. Bertolotti mi era sempre vicino: spesso mi telefonava, per sentire come stavo, e mi rassicurava, dicendo di non avere timore, che la natura avrebbe fatto il suo corso. A me toccava stare tranquilla e prendermi cura, con il mio atteggiamento, della vita che cresceva dentro di me. Passato il primo trimestre, la gravidanza procedette tranquillamente.

Le visite successive, a ridosso del parto, evidenziarono che il bambino si presentava podalico e, nonostante il tentativo di girare il bambino in posizione corretta (pratica che il dottore sapeva eseguire con grande maestria), ci “arrendemmo” all’idea di affrontare un parto cesareo. Tuttavia, poiché io avrei tanto voluto un parto naturale (aspetto che entusiasmava il dr. Bertolotti – ricordo come gli si illuminava lo sguardo, quando ne parlavamo!), concordammo di procedere comunque con il travaglio, sino alla massima dilatazione consentita, per facilitare la possibilità che, per le gravidanze successive, si potesse procedere per le vie naturali. Il parto non fu una passeggiata (lo sa ogni donna che ci è passata) e gli sguardi dell’ostetrica e degli altri operatori presenti erano piuttosto eloquenti: “Questi sono matti!”, ma la soddisfazione di essere riusciti nella nostra impresa fu grandissima!!! Così nel luglio del 1999 nacque Francesco, accolto dalla benedizione del dr. Bertolotti, che rese grazie a Dio per la nuova vita che aveva contribuito a dare alla luce!

Dopo due anni (e una gravidanza che si interruppe prematuramente) nacque Federico. Anche lui era podalico, ma questa volta il dottore riuscì ad effettuare la manovra e il piccolo nacque per le vie naturali, con grande soddisfazione di tutti, in primis, manco a dirlo, del caro Giancarlo!

E dopo tre anni ecco arrivare anche Alessandro. Al settimo mese, durante una normale ecografia di controllo, ci accorgemmo che il bambino non cresceva a sufficienza e che i flussi di scambio tra madre e figlio non erano regolari. Anche in questa circostanza il dr. Bertolotti si rivelò un’ancora sicura: di fronte a tutti i medici, che mi spingevano per accelerare il parto (la mia pressione sanguigna era al limite), lui si mantenne sempre vigile, ma cauto. Senza minimamente trascurare la salute della mamma, ebbe sempre un particolare riguardo al benessere del bambino e, tenendomi costantemente monitorata, fece sì che si potesse procedere nella gravidanza, per garantire la maggiore maturazione possibile del piccolo. Alessandro nacque un mese prima del termine e pesava solo kg 2,20, ma respirava autonomamente e rimase in osservazione in nursery solo per controllare la sua crescita. Anche questa volta il parto fu cesareo e il dr. Bertolotti, che non poté essere presente perché aveva un impegno improrogabile (era il relatore sui metodi naturali ad un incontro di coppie nella diocesi di Lodi), telefonò in sala parto per avere notizie su come procedesse la nascita!

Nei sette anni in cui ebbi il privilegio di essere seguita da lui come ginecologo, ebbi accanto non solo un medico professionalmente capace e dedito alla sua missione, ma una persona di una umanità profondissima, un autentico amante della vita. Se il suo aspetto austero e la sua riservatezza potevano inizialmente mettere a disagio, bastava parlare del “bell’amore”, come lui stesso lo definiva, o della possibilità di una nuova vita, perché si rivelasse la sua vera natura, quella di un uomo sensibile, tenerissimo, di una rettitudine morale feconda, che si apriva allo stupore per le meraviglie di Dio.

Resta per me uno degli esempi più belli e luminosi di una vita autenticamente cristiana.

Barbara Anselmi Romano

Il miracolo di un santo per la vita

Che bei ragazzi. Lei è Rosa, una napoletana ventiduenne bionda con gli occhi azzurri: saranno i Normanni… Lui è Michele, un lombardo con occhi e capelli scuri scuri: il mondo capovolto. Si presentano al consultorio molto determinati: vogliono la certificazione per abortire. Noi come ente facciamo obiezione di coscienza alla 194, ma questi ragazzi hanno il diritto di essere ascoltati, lo prevede la stessa legge, che anzi invita a fare di tutto per aiutare chi vuole abortire a “superare le difficoltà” che spingono in quella direzione. Ma poi c’è un’altra cosa: un colloquio serio non lo si nega a nessuno. Questione di professionalità. Sentiamoli allora. Nessuno dei due ha un’occupazione stabile, non hanno una casa e vivono con la madre di lui. I genitori della ragazza “normanna” sono in America per motivi di lavoro. Parlando con loro provo la stessa impressione che qualche volta mi fanno i ragazzi di oggi: cincischiano, sono immaturi, un po’ bamboccioni. Ma c’è del buono in loro. Intanto, la loro relazione dura da due anni, dunque può dirsi stabile. E poi mi sembra proprio che, magari in modo confuso, sentano l’importanza di essere coppia, quel senso direlazione che è da sempre un potente antidoto alla solitudine esistenziale. Faccio leva proprio su questo. Con ogni cautela mi permetto di suggerire che, come l’aborto non di rado incrina la stabilità della coppia, così un figlio può renderla ancora più salda, farla maturare… Tiro fuori poi la parola “responsabilità”, verso il concepito e verso loro stessi:  «non si scappa dinanzi alla prima difficoltà, ma la si affronta con coraggio, anche con il coraggio di chiedere aiuto». Michele non dice nulla; Rosa invece è scostante, come non volesse mettere in discussione una decisione già presa e metabolizzata. Tanto che, quando al termine del colloquio la invito – se lo desidera – a fare un’ecografia di controllo, mi risponde brusca: «No no no…» Li ricordo bene, quei tre no così sonori! Li accompagno all’uscita. Nell’anticamera c’è la targa che ricorda il servo di Dio Giancarlo Bertolotti, il ginecologo innamorato delle mamme e dei bambini al quale il consultorio è dedicato. Se ne accorge il ragazzo, che se ne mostra sorpreso. «Lo ha conosciuto?» faccio io. «È il ginecologo che mi ha fatto nascere». Mi sembra insieme contento e turbato. Se ne vanno. Silenzio per diversi giorni, ma la settimana successiva improvvisamente me li trovo davanti, loro due e la madre di Michele. Era successo che, arrivati a casa, ne avevano appunto parlato con la madre, completamente all’oscuro della situazione. Non era stato facile per Rosa, titubante a chiedere ancora un favore alla “suocera”. Ma aprirsi con sincerità ha fatto evidentemente bene a tutti: prima di tutto ai due ragazzi, che ora sono determinati a tenere il loro bambino. Giunti al settimo mese di gravidanza, volano in America per dirlo ai genitori di Rosa, sorpresi ma felici del piccirillo in arrivo. Che nasce là, fruendo dunque della doppia cittadinanza. È una bambina e si chiama Giorgia. Poi tornano in Italia. Vengono in consultorio per la visita e il percorso post parto. Parliamo ancora a lungo. Dimostrano di avere acquisito una piena consapevolezza della maternità/paternità, e ora mi appaiono davvero persone diverse, più complete. Di certo io non li mollo e, con l’attiguo Cav, già siamo all’opera per aiutarli ancora. Anche così nasce una famiglia.

Laura